Tutti conoscono l’infelice pagina storica dei fatti di Bronte, ma in pochi sanno che essa ha ispirato la memorabile novella di Giovanni Verga intitolata Libertà.

Pubblicata dapprima sulla “Domenica letteraria” il 12 marzo 1882 e poi confluita nelle Novelle rusticane, quella di Verga è quindi una narrazione strettamente storica che comprova come il racconto breve di impronta verista si presti molto bene all’analisi dei fenomeni storico-sociali della Sicilia risorgimentale.

Punto di avvio della novella sono i tragici eventi avvenuti in paese tra il 2 e il 5 agosto 1860, durante la Spedizione dei Mille, quando l’arrivo di Garibaldi e la promessa di un’equa spartizione delle terre demaniali avevano suscitato nella popolazione illusioni di liberazione da cappelli e galantuomini; il mancato adempimento alla parola data indusse i contadini a insorgere e abbandonarsi per tre giorni a saccheggi e soprusi di ogni tipo.

Nino Bixio, inviato da Garibaldi, giunse in paese quando la sommossa era ormai cessata, ma attuò ugualmente una durissima repressione, che si concluse con la condanna a morte immediata di cinque persone – fra cui l’avvocato Nicolò Lombardo, costituitosi di sua volontà, e Nino Fraiunco, un malato di mente.

Verga non fa menzione dell’avvocato Lombardo e chiama Fraiunco con l’appellativo di Pippo il nano, senza accennare alla sua infermità mentale; Bixio non viene mai direttamente nominato.

Come in tutte le novelle della raccolta, il narratore ricorre all’espediente letterario della regressione, ovvero alla sua eclisse nel racconto: egli non guarda gli eventi dall’esterno, ma è partecipe delle vicende e le rappresenta come se fosse uno dei personaggi in essi coinvolto. Il titolo stesso inoltre rispecchia l’amara ironia che il Verga rivolge alla miseria dei contadini brontesi, i quali pagano a caro prezzo le tanto agognate terre e i beni materiali.

Il racconto ha una struttura circolare e si articola in tre momenti, corrispondenti alle tre giornate della rivolta e a tre modi diversi di intendere la libertà.

Nella prima giornata i contadini danno luogo a tumulti inarrestabili. La folla è rappresentata come un torrente, un mare di berrette bianche in tempesta che spumeggia e ondeggia minaccioso; le violenze sono descritte con immagini nette e crude, di grande impatto visivo. Alla fine la ribellione si placa e l’orgia di sangue sfocia nella stanchezza e nell’abbattimento. La libertà è qui intesa dai contadini come cieca vendetta contro i soprusi secolari.

La seconda giornata ha toni più calmi ed è anche la parte più breve del racconto. I contadini ripensano all’accaduto e la rabbia del giorno precedente lascia spazio a una confusa consapevolezza mista a sconforto. In questa fase della narrazione la parola libertà assume il significato di giustizia sociale, di riscatto dalla servitù.

Segue la terza giornata, quella in cui è ampiamente descritto l’arrivo di Bixio, la fucilazione dei cinque e la conclusione del processo a carico dei superstiti. Il mondo dei contadini di Bronte e quello della giustizia garibaldina sono lontani e inconciliabili. Questa insanabile diversità è espressa sapientemente dalla penna del Verga attraverso una serie di contrapposizioni: la lenta marcia delle camicie rosse e la scomposta disperazione delle donne brontesi; le attenzioni paterne del generale verso i suoi ragazzi e la noncuranza con cui ordina le fucilazioni; le viuzze del paese di Bronte e Catania col suo grande carcere. La libertà è alla fine il crollo delle illusioni dei contadini e la scoperta dell’inganno subito, come appare dalle parole del carbonaio che concludono la novella:

“Dove mi conducete?  In galera?  O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c’era la liberta!”

 

Curato dal Volontario SCU Nunzio Lupica